L’epopea struggente di piccole vite. Su La vita paga il sabato di Davide Longo | minima&moralia

2022-07-09 00:24:34 By : Mr. Alan Zhu

di minima&moralia pubblicato giovedì, 7 Luglio 2022 · Aggiungi un commento 

Come scrive Mark Fisher, negli ultimi trent’anni le nostre vite sono diventate sempre più inospitali e strane (“weird”): siamo attratti e turbati da ciò che si trova dove non dovrebbe essere o da ciò che manca senza un motivo plausibile perché, apparentemente, la stranezza è diventata l’unica chiave di lettura del nostro tempo.

Un capello recapitato in una busta, un pezzetto di metallo scovato in una fossa comune, un oscuro disegno che collega delitti distanti nello spazio e nel tempo, un’automobile che si trova dove non dovrebbe: oggetti fuori tempo o fuori contesto attorno ai quali si agitano i protagonisti chiamati a cercare una precaria forma di verità nei romanzi del ciclo di Arcadipane (Il caso Bramard, Le Bestie Giovani e Una rabbia semplice usciti in contemporanea per Einaudi Stile Libero seguiti dal recente La vita paga il sabato).

Per Vincenzo Arcadipane, commissario con “una barba primitiva e gli occhi grandi, lucani e diversi”, per il ritirato Corso Bramard e per la giovane agente in disgrazia Isa Mancini, l’impossibilità di una vita normale è una condizione permanente e ineluttabile: sono tre figure inevitabilmente solitarie e fuori posto che si stagliano su una Torino ostile e compromessa.

Il caso Bramard, primo romanzo della serie, si apre con poche, terribili, parole. “La porta socchiusa del capanno. Il corpo disteso nella luce diafana del pomeriggio. Il disegno dei tagli sulla sua schiena nuda. Capelli neri sparsi tutt’intorno.” La violenta scomparsa della moglie e della figlia annienta Corso Bramard (“un tempo, oltre a essere stato un marito, un padre, un buon cuoco e un uomo che credeva in più di una cosa, era stato un fumatore”) e rende la sua esistenza una condanna senza appello a ricordare “cose magnifiche e ora spaventose”.

La caccia al serial killer chiamato Autunnale, oggettivamente inafferrabile, protratta invano per anni, mette in discussione la struttura stessa del romanzo noir così come fatto a suo tempo da Dürenmatt ne La promessa. All’ex commissario, convertito all’insegnamento e sospeso nel limbo di una tragedia senza spiegazione (“non c’è più vita, adesso”) e di un’indagine senza epilogo, sembra essere rimasta solo la montagna, scura, inospitale, scalata con rabbia e incoscienza (“la montagna aguzza come il suo nome di cinque lettere. Bellissima vista da lontano e invece da lì, sgraziata, monotona, senza slanci. Ma è quella che più di tutte gli somiglia, la sua.”) alla quale Longo dedica pagine potenti e vivide.

A richiamarlo alla vita arriva, fuori tempo massimo, l’indizio consegnato a un Arcadipane rassegnato e impantanato nel purgatorio quotidiano del commissariato di Barriera a Torino. Qui si rivela una discendenza patriarcale fatta di uomini impossibili: Arcadipane è stato scelto (o meglio “plasmato nelle infinite ore di servizio”) proprio da Bramard, il quale a sua volta è stato voluto in polizia, seppure troppo giovane, politicamente sospetto e fuori squadro, dal Commissario Petri. Un’eredità maledetta, trasmessa da maestri reticenti e scostanti, capaci soltanto di riconoscere nell’altro l’istinto venatorio, il guizzo investigativo: uomini disperati ma dediti alla verità, capaci di essere vicini esclusivamente in funzione del lavoro di indagine fatto di silenzi, insofferenza e intuizioni condivise a monosillabi.

Al geometrico progetto omicida di Autunnale, si oppone una caccia lenta, caotica, ostacolata da imprevedibili battute d’arresto che procede esclusivamente grazie all’alterna alchimia tra genialità, malinconica determinazione e rabbia che muove i protagonisti. Ed è proprio questo istinto inaffidabile ma al tempo stesso preciso, che porta Arcadipane a incrociare nuovamente la strada del suo ex-capo in Le bestie giovani quando una segnalazione di routine porta alla riapertura di un’indagine condotta trent’anni prima insieme alla polizia politica, un fascicolo che sprofonda la vita dei nostri protagonisti negli anni (forse) più bui della storia della repubblica. Lo sfuggente Neocle, figura sfocata dell’eversione del ‘68, sopravanza per mezzi e potere i nostri protagonisti, esattamente come Autunnale. Tutte le spietate ragioni della storia e della politica trovano però un inciampo fatale nel tenace attaccamento alla verità di Arcadipane e dei suoi. Un insignificante dettaglio fuori posto e fuori tempo, il rivetto di un modello di jeans degli anni Settanta rinvenuto in una fossa di scheletri frettolosamente attribuiti alla Seconda Guerra Mondiale, riporterà alla luce una vicenda ormai irredimibile: un’indagine apparentemente inutile che non può più portare alcuna giustizia, ma solo rimettere al posto giusto un trascurabile tassello di verità.

Dettagli fuori luogo e cose inspiegabilmente a posto, dicevamo, come l’arresto del giovane Luca Apostolo per un’aggressione (in apertura a Una rabbia semplice): semplice e così banale da risvegliare l’istinto di Arcadipane e da spingerlo a cercare nuovamente il confronto impari ma salvifico con il proprio geniale mentore.

Il lavoro di Longo non è però un’inchiesta sulle origini del male. Siamo di fronte alle epopee struggenti di piccole vite, personaggi spezzati ma comunque incapaci di rassegnarsi, di abbandonare la lotta. C’è un disperato bisogno di famiglia che agita l’animo di Corso, Isa e Arcadipane, un bisogno che non può essere più soddisfatto in modo convenzionale ma solo in fugaci intermezzi dove le esistenze di questi tre irriducibili si incontrano e trovano spiragli di speranza, di normalità.

In un’epoca di narrazioni seriali che sembrano destinate a non estinguersi mai, i romanzi di Arcadipane ci lasciano al contrario l’impressione di essere arrivati appena in tempo per assistere agli ultimi momenti di vicende che, strette tra un passato che non trascorre e un presente tetro e inospitale, potrebbero sprofondare nel silenzio da un momento all’altro. Persino il tempo tra un volume e l’altro è denso, vero, rievocato da poche battute asciutte ed ellittiche: una resistenza alla parola che ricorda la scrittura cinematografica di Taylor Sheridan e che può ben essere attribuita alla tradizionale reticenza piemontese tanto quanto alla sapienza dell’autore, capace di velare di un decoroso mistero non solo le vicende delittuose ma anche la vita privata dei propri personaggi.

La scrittura di Longo è mobile, secca e puntuale, ma allo stesso tempo evocativa e poetica. Sta in equilibrio tra l’asciuttezza di Fenoglio e la spietatezza tagliente del miglior Scerbanenco salvo poi aprirsi in modo inatteso in dialoghi fulminanti e ironici, alternando le parole della vita e quelle della morte, “due scritture difficili che dicevano poche cose e semplici.”

Il consiglio è quello di prepararsi a La vita paga il sabato recuperando i precedenti, non perché sia strettamente necessario, ma semplicemente perché Arcadipane e Corso Bramard meritano il giusto tempo per raccontarci le loro vite.

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