Andrea Barbera: quando il naufragio si trasforma in splendida esperienza di vita

2022-10-14 23:27:30 By : Ms. Nicole LEI

Per certi versi, la vicenda che vi raccontiamo a noi ha ricordato uno dei capolavori di Paolo Conte, “Onda su Onda” (nella canzone il protagonista ritrova la felicità grazie a un naufragio): è la storia di Andrea Barbera, skipper di 38 anni di Agrigento, che nella notte tra il 14 e il 15 aprile dell’anno scorso ha dovuto abbandonare il suo catamarano appena acquistato al largo di Ravenna, perché investito da una burrasca improvvisa e non prevista. Ma come vedremo, da esperienza negativa il naufragio si è trasformato in un fenomeno di solidarietà collettiva che riporta in vita i valori della navigazione.

UNO SKIPPER NATO IN BARCA Procediamo con ordine: “Sono nato a bordo”, ci racconta Andrea, “mio padre, nel 1971, è stato il primo abitante di Agrigento a possedere una barca a vela, un Ceccarelli di 8 metri e mezzo. Ho mosso i primi passi sugli Optimist e le derive, poi sono diventato di Istruttore FIV. Ho capito che il mare era la mia strada fin da subito, tanto che ho abbandonato la scuola al secondo anno di liceo per dedicarmi alla vela. Ho partecipato a tre Giri d’Italia (la manifestazione organizzata da Cino Ricci) in equipaggio con Matteo Ivaldi e Andrea Mura e a due Giri di Corsica e Sardegna, ho preso parte alla Roma per Tutti (chiudendo secondo), ho fatto trasferimenti a bordo di barche mitiche come Steinlager 2 e Il Moro di Venezia II. In Mediterraneo, ho navigato ovunque. La mia prima esperienza atlantica, nel 2006, è stata la traversata verso i Caraibi a bordo, in qualità di co-skipper di Adriatica, la barca di Patrizio Roversi e Syusy Blady (partecipando anche al reality di bordo, Adriatica – La Rotta Rossa). Il mio lavoro è quello di fare lo skipper, effettuare trasferimenti, sono istruttore di vela attualmente per la Lega navale italiana, e in futuro ho diversi progetti di navigazioni in solitario. Tra le quali il record su cat non abitabile in Atlantico, sulle orme di Matteo Miceli e altri navigatori italiani.

“MI METTO IN PROPRIO” “Sono stato comandante di barche quali Swan 75 e Grand Soleil 56 in Costa Azzurra”, prosegue il siciliano, “prima di decidere di mettermi in proprio e aprire una mia società di charter e scuola vela (la Ariadimare). Ho acquistato prima un 12 metri in acciaio di Alfeo Scattolin (mitico progettista padovano), che però risultava lento e pesante, poi quando ho visto che era in vendita in Veneto il veloce Formula 40 Shaka, cat di Enrico Contreas sul quale, negli anni ’80, aveva navigato anche Cino Ricci, non ho saputo resistere. Quella barca, che giaceva smontata in un capannone di Caorle (Venezia) doveva essere mia. Ho dato fondo ai miei risparmi (22 mila euro il prezzo della barca, più la spedizione di materiale dalla Sicilia: avrò speso 30 mila euro) e l’ho comprata. Sono andato su, ho portato la barca in un capannone del cantiere Crosera a Portegrandi e ho iniziato ad assemblarla. In due settimane ero pronto a scendere in acqua”.

LA BURRASCA CI HA COLTI DI SORPRESA Si parte subito: “Assieme a me, per il trasferimento (il mio quarto transfer dal Veneto alla Sicilia), i due amici Andrea Vanadia e Fabio Farruggia, velisti alle prime armi. Siamo salpati da Portegrandi il 14 di aprile, direzione Ancona, la nostra prima tappa. Sembrava che andasse tutto al meglio, con la barca, molto invelata, dotata di 17 metri di albero, che navigava a 12 nodi di media senza alcun problema. Intorno a mezzanotte, quando eravamo tre miglia al largo di Punta Maestra, alla foce del Po, lo scirocco con il quale eravamo partiti cala all’improvviso, il cielo si pulisce e in poco tempo siamo stati investiti da una burrasca con raffiche di maestrale fino a 45 nodi e un’onda corta minacciosa. Abbiamo tirato immediatamente giù le vele, ma il Formula 40, nato per la navigazione in acque piatte e largo quasi 8 metri (a fondo articolo vi raccontiamo la storia di questa barca) era sballonzolato dall’onda. In più, l’albero alare faceva comunque vela e a derive abbassate e senza vele navigavamo a 5 nodi. Inizialmente, abbiamo optato per attendere che il peggio passasse in cuccetta (Shaka ha due cuccette poppiere negli scafi e una calavele allargata a prua che può essere utilizzata come cuccetta)”.

“ADDIO, SHAKA” Ma non tutto va per il verso giusto: “Questa tempesta, abbiamo poi avuto conferme anche dalla Capitaneria di Porto, è stato un fenomeno imprevisto e locale. In un’ora ci siamo ritrovati da 3 a 22 miglia dalla costa: di fare rotta a motore verso la costa non se ne parlava, la potenza del fuoribordo (10 cavalli) non sarebbe mai stata sufficiente a spingerci contro la furia del vento. Mentre eravamo chiusi in cuccetta sentiamo un botto. Sono uscito in coperta e subito mi sono reso conto che era partito il diamante della traversa di prua, con il golfare ad essa attaccato. La traversa fletteva verso l’alto sotto il carico dello strallo. La situazione era preoccupante, per prima cosa ho tappato il buco a prua con sacchetti di plastica e dacron, ma l’albero sarebbe potuto cadere a momenti. Allora ho deciso, considerata anche la presenza di due velisti alle prime armi a bordo, la cui incolumità era la mia prima preoccupazione, di lanciare il Mayday con il VHF. Purtroppo la radio, con antenna saldata, non funzionava a dovere e per fortuna che un peschereccio, il “Giuliana”, ha fatto ponte radio con la Capitaneria di Porto, che con tutte le difficoltà del caso (non riusciva a individuarci con il radar, poiché il cat ha gli scafi bassi: sono riuscito a scorgerli all’orizzonte e allora ho usato i fuochi di segnalazione) è arrivata con una motovedetta alle prime ore del mattino. Avendo io lanciato il Mayday, non era previsto il traino in porto dell’imbarcazione. A malincuore, ho abbandonato per ultimo la barca, infreddolito, dopo aver preso documenti, cellulare e gps palmare, e sono salito sulla motovedetta“.

VIDEO ESCLUSIVO – L’ATTESA DEI SOCCORSI A BORDO DI SHAKA

TORNERO’ A RIPRENDERTI “Ho lasciato accesa la luce in testa d’albero, perché ero intenzionato a recuperare la barca il prima possibile. Al mattino presto, dal Marina di Ravenna, a bordo di un gommone di 9 metri affittato, siamo partiti alla ricerca di Shaka, basandoci sull’ultimo punto nave registrato. Quando siamo giunti sul luogo, le condizioni meteo erano identiche a quelle della notte, con venti oltre i 30 nodi e un’onda molto alta, e del catamarano nessuna traccia. Abbiamo incrociato un peschereccio che ci ha detto di aver individuato sul radar la barca alla deriva, ci siamo fatti dettare via radio la nuova posizione, l’abbiamo raggiunta e neanche lì abbiamo trovato traccia della mia Shaka. Mentre rientravamo a terra (5 ore e mezza, per percorrere le 30 miglia contro il maestrale che ci separavano da Marina di Ravenna) ricordo che venni assalito dallo sconforto“.

L’EPOPEA DEL RECUPERO Giunti a Ravenna, i tre decidono di tornare ad Agrigento per organizzare il recupero a mente più lucida. Passano prima da Bologna, dove dormono da un amico e finalmente, in un negozio di articoli sportivi, si cambiano e comprano abiti nuovi: “Ho lasciato la mia cerata e i miei stivali nel camerino del negozio”, racconta Andrea, “dovevo rompere con il passato. Credevo di avere appena perso tutti i miei risparmi e soprattutto il mezzo con il quale mi sarei dovuto guadagnare la pagnotta”. Ad Agrigento i tre amici organizzano un “tavolo tecnico”: scaricando tutte le carte meteo, incrociandole con quelle delle correnti stabiliscono che il catamarano si debba trovare a circa 35 miglia dalla costa italiana, più vicino alla Croazia. Tramite alcuni contatti, riescono a far decollare da una base di volo ravennate un piccolo Chessna per una ricognizione aerea (il pilota va in cerca della barca gratuitamente, mosso da uno spirito di solidarietà), ma c’è scirocco, quindi il velivolo è costretto a stare basso per non salire sopra le nuvole quindi la ricerca avviene a visibilità ridotta e non dà i frutti sperati. “Non ci eravamo dati per perduti: tramite il sito Marine Traffic abbiamo contattato tutte le navi che erano in zona, Andrea Vanadia ha il cognato che lavora sui pescherecci e tramite lui abbiamo avvertito anche tutte le imbarcazioni da pesca. Dopo 5 giorni, se non ricordo male era il 20 aprile, la Capitaneria di Porto di Chioggia mi ha chiamato dicendomi che il peschereccio “Il Leone e La Volpe” aveva trovato la barca (a sole 3 miglia dal punto che avevamo stimato) e l’aveva trainata a Porto Pila. Mi sono sentito liberato da un peso grandissimo, non stavo nella pelle”.

UN LUNGHISSIMO LIETO FINE “Al mattino ero sul volo per Venezia. All’aeroporto ci è venuto a prendere il figlio del titolare del cantiere Crosera (quello in cui avevo montato il catamarano), che si è appassionato alla nostra storia, anche perché suo padre era tra i costruttori del peschereccio che aveva ritrovato la barca e ne conosceva l’armatore (coincidenze del mare!), e ci ha accompagnato a Porto Pila. La barca era in condizioni disastrose, aveva disalberato la randa sott’acqua squarciata, il boma spezzato (durante il traino del peschereccio le appendici sommerse avevano toccato il fondo e si erano ulteriormente danneggiate). Da qui inizia il lungo “lieto fine”: innanzitutto Gianfranco e Lorenzo, i comandanti del peschereccio che ha recuperato Shaka, non hanno voluto un euro (secondo il codice della navigazione, chi recupera una barca in mare abbandonata può chiedere al proprietario una cifra che arriva fino al 30% del suo valore, quindi in questo caso almeno 7.000 euro, ndr), anzi, mi hanno offerto pure delle birre nell’arco delle due settimane in cui siamo rimasti a Porto Pila per riparare la barca e riprendere la navigazione”.

IL POTERE DELLA SOLIDARIETA’ “Per non parlare della solidarietà e degli aiuti che ho ricevuto dagli abitanti di Porto Pila, 300 famiglie di pescatori nel nulla della pianura Padana, alla foce del Po. Qui sono stato accolto come un figlio: mentre riparavamo l’imbarcazione, c’era chi ci portava una bottiglia di vino, il prete ci ha pure regalato una bicicletta per poterci muovere più agevolmente, eravamo ospiti alle grigliate di cacciagione e pesce che venivano puntualmente organizzate in paese. Gli ultimi quattro giorni li ho persino passati nel Bed & Breakfast “Il Rifugio di Punta della Maestra”, della famiglia Zago, che mi ha ospitato gratuitamente e mi ha dato da mangiare (non avevo più soldi e l’ultima cosa che mi sarei potuto permettere era un soggiorno in un B&B).

Ho utilizzato gli ultimi fondi per organizzare il trasporto della barca da Porto Pila ad Agrigento (mediante un camion di frutta che, scarico, ritornava dal viaggio nel nord Italia): ad Agrigento ho potuto rimettere in acqua la barca grazie all’aiuto di tanti amici che mi hanno sostenuto economicamente e moralmente, così ho potuto riprendere la mia attività di charter. Per sdebitarmi, penso che dovrò portarli in barca tutti!”.

ANDREA VIENE PREMIATO Ma non è finita qui, Andrea viene pure premiato: “Nel luglio del 2016 grazie a questa mia avventura, ricevo dalla Soprintendenza del Mare il prestigioso premio Trofeo del mare a fianco di grandi personaggi come Alberto Angela, Donatella Bianchi e Luca Zingaretti”. Questa è la bella la storia di Andrea, il marinaio che ha sperimentato su di sé il valore della solidarietà tra uomini e marinai.

FORMULA 40, VIAGGIO NELLA VELA DIMENTICATA Shaka (lungh. 13 m, largh. 8 m, disl. 2.500 kg) è un cat sportivo progettato negli anni ’80 da Enrico Contreas: ha partecipato al circuito dei Formula 40 con il nome di BabyCresci (su cui navigò anche Cino Ricci) fino ai primi anni ’90. Questo circuito, che per certi versi è l’antesignano di quelli che siamo abituati a seguire oggi (GC32, M32, AC45, Extreme 40…) da punto di vista dello spettacolo, in realtà funzionava in maniera completamente diversa: era regolato da una box rule molto semplice, che prevedeva una lunghezza massima (12,18 m), un peso minimo (1.800 kg) e una superficie velica di 180 mq spi compreso (la randa era grandissima, il fiocco di 8 mq, il minimo previsto dalla box rule). Inoltre le regate avvenivano a tempo, e non su percorso tradizionale: un evento era costituito da una regata lunga di sei ore e tre corte di due ore ciascuna e le boe erano piazzate il più vicino a terra possibile per consentire al pubblico di seguire le regate (in questo i Formula 40 sono serviti da ispirazione per la nuova Coppa America e i circuiti sopraccitati). Il circuito, che lanciò velisti del calibro di Jean Le Cam e Philippe Poupon, perse visibilità a causa dei grandi divari di prestazioni tra le barche: la “morbidezza” della box rule aveva fatto sì che si potessero perfino realizzare trimarani, come Biscuits Cantreau (progettato da VPLP, al timone Le Cam) che di fatto era imbattibile dal resto della flotta.

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