L’Oro dei Tuareg -

2022-09-02 21:17:43 By : Ms. Vera Ye

Una vita d’alpinismo – 104 – Mezzogiorno di Pietra – 9 (AG 1981-010)

L’oro dei Tuareg In Sicilia, certo, ci sono grandi sezioni collinari: ma queste, quando non sono coltivate, non hanno carattere morbido, tutt’altro. Il terreno è aspro, difficile, erto. Se non è boschivo, è comunque petroso: in una parola, il territorio è spesso selvaggio. E poi le grandi scogliere, chilometri e chilometri di roccia tra l’azzurro del mare e del cielo.

Ho la fortuna di conservare nella mia memoria un documento visivo e completo delle molte scorribande fatte da me sull’isola, ma quel 15 ottobre 1981 sul Monte Carbonara, il più alto delle Madonìe, fu magico. Marco, Nella e io facemmo un’escursione pomeridiana, in una luce che avrebbe imbellito anche uno sconcio. Ci mancava il camminare, avevamo bisogno di respirare la montagna senza la roccia: ci trovammo in un mondo nudo, spogliato, quasi deserto.

«È felice e consolidata tradizione dei ragazzini di campagna la ciacculiata: durante le notti senza luna e con particolari venti» ricorda l’ornitologo Bruno Massa «vanno a cercare tra le basse fronde degli agrumeti, con l’aiuto di una lampada all’acetilene, gli uccelli che dormono e li abbattono a bastonate».

«La nostra caccia, fomentata da interessi commerciali, porta sempre con sé una appendice di attività accessorie indegne della società civile: dall’uccellagione e cac­cia da capanno all’uso indiscriminato dei veleni, dalle trappole d’ogni sorta all’immancabile bracconaggio, una ulteriore degenerazione venatoria purtroppo larga­mente ammessa e tollerata nell’Isola. Qui, a esempio, è del tutto normale tentare di intrappolare i pettirossi con il vischio, né desta alcuna meraviglia la cattura delle rare coturnici sicule superstiti effettuata avvelenando l’acqua dove sono costrette, nella generale siccità, ad abbeverarsi d’estate (Franco Tassi)»

È vero, in Sicilia il piombo ha fatto il deserto, e non si sono create oasi faunistiche. Perseguendo la dissennata politica della guerra all’ultimo pelo e all’ultima piuma la caccia andrà a uccidere se stessa.

Questo abbiamo respirato sulle Madonìe, a dispetto del pomeriggio stupendo.

Nella notte eravamo sotto la falesia del Monte d’Oro, una barriera rocciosa da sogno, un ambiente pulito, splendente alla luce della luna.

Il 16 con Marco salii L’Oro dei Tuareg, e perché eravamo sul Monte d’Oro e perché il caldo ci costrinse ad avvolgerci la testa con le nostre t-shirt. Un diedro perfetto dava la linea, che noi seguimmo integralmente portando a compimento una delle più belle vie della nostra collezione.

Quel giorno soffrimmo la sete, al fondo della discesa il pastore ci offrì da bere un vinello rosé che tracannammo pieni di riconoscenza. Ma con il vino non eravamo più tuareg, eravamo tornati in Sicilia.

Nella notte ci trasferimmo ancora verso est, avevo deciso di salire la più alta montagna dei Monti Nébrodi, il Monte Soro, dalle acque acquitrinose del Biviere per la dorsale nord-est. Ma non poteva sempre andare bene, non sempre si trovava la strada alla prima. Nella era incaricata, come sempre, di prendere nota dei sinistra-destra, delle stradine, segnando ciò che il contachilometri indicava a ogni bivio. Ma quella mattina qualcosa andò storto, forse ero più nervoso del solito, scoppiò un violento litigio cui Marco dovette assistere senza sapere che pesci prendere. È chiaro che una moglie non può essere equiparata a un membro dell’equipaggio, qualche volta tendevo a confondere i ruoli… esplosi in una serie di esclamazioni ingiuriose che tradivano l’ansia del rispetto del calendario e della lista degli obiettivi. Mi fu rinfacciato che avevo perso il lume della ragione, “quando mai sono venuta qui” e “chi ti credi di essere”. Ribattei che quella era tutto meno che una vacanza, quindi se non le andava bene poteva anche prendere un treno e tornare a Milano. Intanto agitavo a destra e sinistra lo sterzo, cercando di capire dove cazzo stessimo andando: perché il Monte Soro che avevo eletto a destinazione non avevamo la più pallida idea di dove fosse.

– Con voi non mi sono mai annoiato – commenta oggi Marco.

Le creste dei monti Nébrodi sono piuttosto brulle, forse a causa dell’affioramento delle argille, ma sui pendii figurano grandi boschi di roverelle, lecci e faggi. Quasi del tutto scomparsi sono gli abeti dei Nébrodi (Abies nebrodensis).

Alle quote più alte si formano stagionalmente numerosi stagni con vegetazione palustre, detti «bivieri», mentre altri ve ne sono di perenni, come il Biviere di Cesarò. Sotto alle sommità, nelle campagne, è il tipico ambiente destinato alle colture cerealicole. Tutto ciò è sottolineato pure dall’assenza dei muri di recinzione, un la­tifondo da parecchi secoli accettato. In questo ambiente di esteso sfruttamento sono sopravvissuti solo quegli alberi che hanno un’utilità al di là del legno che possono produrre: le roverelle per esempio, isolate nei campi, producono le ghiande: una specie di pascolo alberato per i suini. Un tempo i boschi erano incomparabilmente più estesi e ospitavano una fauna rara e importante, che annoverava il lupo, il cervo, il daino, oggi del tutto estinti. Gli erbivori di un tempo sono stati sostituiti dalle pecore, buoi e capre. Come la maggior parte della Sicilia, un tempo boscosa, anche i Nébrodi sono ridotti all’aridità: brulli, desolati e inospitali, sia per l’uomo che per gli altri esseri viventi.

Dalla vetta del Monte Soro si vede bene il grande cono fumante dell’Etna. Sembra di toccarlo.

Isole Eolie Il nostro giro alle Eolie non cominciò bene quel 18 ottobre. La notte avevamo dormito a Milazzo, anzi più a nord, sul capo estremo. Ci eravamo inoltrati con il pullmino in una specie di giardino pubblico. Era sabato sera e avevamo paura di avere delle noie, forse le coppiette, la polizia… specie con Marco che dormiva raggomitolato fuori.

In serata c’era stato un altro scazzo con Nella, avevamo zaini terrificanti e non volevo che portasse il beauty case, un volume per me del tutto inutile, per lei essenziale.

Appianato il violento litigio, tutto filò liscio fino alle cinque di mattina, allorché fummo svegliati di colpo da due spari secchi e vicini. L’alba era grigiastra ed estremamente umida, veli d’acqua permeavano ogni oggetto, lo scirocco alitava caldo e non c’era vento. A sei-sette metri da noi stava impettito un cittadino vestito da cacciatore, l’indice teso sul grilletto, il fucile a mezz’aria, lo sguardo truce rivolto in alto. Fumava nervosamente una sigaretta ed era paonazzo in volto. Ai piedi aveva un paio di stivali del tutto inutili per la ghiaia del giardino, una giacca kaki e pantaloni di velluto. Se va bene la moglie si era anche alzata prima di lui per fargli il caffè, all’eroe, al procacciatore di cibo per la famiglia. Nel cielo grigiastro guizzavano gli ultimi uccelli, di chioma in chioma, velocissimi. Io «tenevo» per i volatili, ma quando vidi arrivare un’altra auto capii che era finita. I prodi scesero, tirarono fuori un cocker che si rifiutava assolutamente di collaborare e preferiva lo zerbino dell’auto. Si piazzarono accanto alle portiere e attesero il primo segno di vita. Poco dopo fu una sparatoria infernale. Vidi cadere, agitando le ali ormai a brandelli, dei volatili incredibilmente minuscoli.

Il senso di nausea scomparve solo al traghetto (di solito accade il contrario): un gruppo di persone andava a un matrimonio a Vulcano e ci furono per tutta la tra­versata canti e balli assai trascinanti che coinvolsero la totalità dei viaggiatori. In vetta a Vulcano tutto andò bene, fu un’escursione assai piacevole in mezzo allo zolfo, poi avevamo fatto il bagno in una naturale piscina di fango dove il nostro commento meno sarcastico riguardava la quantità delle minzioni altrui: la sera stessa eravamo a Lìpari, affamati e con poche disponibilità. Dopo un pasto mediocre, affardellati da zaini pesantissimi che contenevano non soltanto i normali bagagli del giovane turista ma anche il normale equipaggiamento d’arrampicata, cercammo un posto per sdraiarci. Abbandonato il corso denso di folla, salimmo una scalinata che ci portò al Museo. Sul vialetto acciottolato c’era un angolino discreto, poco illuminato. Sten­demmo lì i sacchi piuma e, bevuto il tè, ci apprestammo a dormire. Alle 23 si spa­lancò un cancello e una portinaia ci investì, trattandoci da barboni. Andate al cam­ping! Cominciammo ad alzarci a mezzo busto, facendo intendere che non volevamo che chiamasse i carabinieri. Quando, con voce più addolcita, ci chiese perché non eravamo andati al camping, Marco fu pronto a dire: «E i soldi?». «I soldi? Non li avete? Beh, allora state qui. Ma domattina alle sei dovete sgomberare. E non spor­cate, mi raccomando!». Nella notte udii il marito che brontolava, alle 5.30 era già lì e con muta presenza c’incitava a una rapida dipartita. Di sicuro aveva litigato con la moglie sul nostro conto e sperava che compissimo qualche malefatta per poterci investire tutti, noi e la moglie. Alle sei in punto evacuammo, alla ricerca di un fornaio e di pizza calda.

Dopo questo episodio le cose migliorarono. A Filicudi la famiglia di Giuseppe e Concetta Saltalamacchia ci fece sentire a casa nostra. Lui era di Lìpari, lei di Filicudi, contrada Siccagni, la più sperduta. Avevano una piccola trattoria vicino al porticciolo, senza luce elettrica. Dormimmo sulla spiaggia di Pecorini. Alle cinque di mattina del 20 ottobre Bortolo Pinzone fu abbastanza puntuale e ci caricò in barca per la Canna di Filicudi: un marinaio d’altri tempi, in simbiosi con il mare.

L’obelisco roccioso si erge in mezzo al mare, a 1700 metri dalla costa. Alto 71 metri è impressionante, non tanto per la verticalità quanto per la nera solitudine nel nulla azzurro. Vi salimmo tutti e tre per la via normale, avevamo tempo quel giorno e Nella non aveva paura di rallentarci. In cima sembra di non essere fermi, pare proprio di dondolare per via del mare non immobile. In questa salita di tutto rispetto ci avevano preceduto le guide di Macugnaga (giugno 1973) e i siciliani con un Roby Manfrè quattordicenne (20 luglio 1975). Nell’attesa del nostro Pinzone, con Marco effettuammo il giro completo della Canna a pelo d’acqua, Carbone della Befana (per via della roccia basaltica e nerissima). Marco procedette in senso orario, io in quello opposto. Oggi si direbbe DWS (deep water soloing).

A Salina il 21 ottobre, dopo essere stati in cima al Monte dei Porri, sotto un diluvio torrenziale trovammo ospitalità sul terrazzo coperto della Trattoria «da Peppino». A Panarea ancora tempo molto incerto, in un buco nel maltempo salimmo i 90 metri della scogliera basaltica di Capo La Loca. Erosione eolica non è difficile, ma non la si deve sottovalutare: la qualità della roccia non la farà mai diventare popolare, neppure con gli eventuali spit.

Anche qui i locali furono di una gentilezza squisita. Forse non assomigliavamo ai soliti barboni, forse la nostra follia era simpatica: pioveva e ci diedero ospitalità sulla terrazza e degli spaghetti al pomodoro che ricordiamo ancora ora. E questo per tre notti di fila, perché così fu il nostro tour alle Eolie, ostacolato dal tempo e dal denaro prima e poi anche dagli scioperi dei traghetti. Non lo dico per protestare: tutto sommato l’idea d’essere prigioniero per qualche giorno in un’isola non ci tur­bava e Panarea nella stagione morta ha degli aspetti positivi. Riuscimmo appena a fare il giro dell’isola, il 23 ottobre. Mentre ci dispiacque di non poter neppure raggiungere Stròmboli: il mare era a forza 6-7 quando il capitano della nave, nel tentativo di raggiungere Stròmboli e nei pressi di Basiluzzo, ci richiamò chiedendoci se eravamo pazzi a stare con quel mare sul punto più alto dell’imbarcazione.

Con il dietro-front della nave, ci fu la definitiva rinuncia a salire sul vulcano di Stròmboli e ci decidemmo a tornare. La mia tabella di marcia aveva subito un duro colpo. La sera del 24 dormimmo sul molo del porto di Lìpari e nella notte fummo investiti da una piccola tempesta di vento che al risveglio ci fece ritrovare interamente ricoperti di sabbia.

A ben vedere le Eolie, le «terre di fuoco e di vento» sono ancora un piccolo paradiso per chi le visita senza abitarle tutto l’anno. È la vecchia discussione che si fa con gli isolani e ciascuno di noi ha da dire sul suo proprio destino e lo vorrebbe diverso. Forse per questo la trattoria dei Saltalamacchia si chiama «Invidia»?

Alcàntara, Pantàlica e Cassìbile Il giorno in cui tornammo a Milazzo (25 ottobre) avemmo ancora il tempo di dare un occhio alle Gole dell’Alcàntara, ma senza trovarvi obiettivi. Forse eravamo un po’ stanchi. Puntammo quindi decisamente a sud.

Ma era tardi. Trovammo a fatica una stradina che ci sembrava tranquilla a sufficienza. Non ne potevamo più e decisi: “hic stabimus optime!”.

Non avevo ancora spento i fari che Marco afferrò della carta igienica e si eclissò in una collinetta subito a est della strada. Un attimo dopo una 128 caffelatte quasi c’investì frontalmente con stridore di freni e ghiaia. Ne uscì un contadino che ci puntò addosso la lupara senza alcuna circospezione.

– Che ci fate qui? – Buona sera. Noi ci siamo fermati qui perché eravamo stanchi e volevamo dormire. – Sì, ma perché… che fate? – Beh, veramente domani volevamo salire sull’Etna (non era vero). – Non si parte da qui per l’Etna. – Ma, scusi, possiamo rimanere o no? Diamo fastidio a qualcuno?

La nostra gentilezza (obbligatoria, vista la lupara che mi puntava ancora al petto) lo ammorbidì un poco.

– Non è che non potete stare qui. È che a noi ieri sera ci hanno rubato i limoni… abbiamo i limoni nelle cassette sotto gli alberi e fino a domani dobbiamo stare attenti.

Il lieve sorriso che apparve sul mio viso lo contagiò.

– Mi spiace che ieri sera vi abbiano rubato dei limoni. Noi non sapevamo nulla, se vuoi puoi guardare dentro. A quel punto si affacciò Nella sorridente.

– No, no, vi credo. Anzi scusate i modi… – e in quella finalmente abbassò la canna.

– Non c’è problema – dissi sollevato, ma già m’immaginavo la scena se Marco avesse dovuto comparire all’improvviso nel buio. Quello avrebbe potuto spaventarsi… perché di sicuro pensava fossimo solo in due.

Marco, dall’alto della sua posizione defecatoria, aveva visto la scena. Conclusa l’operazione aspettava prudentemente che quello se ne andasse. Ma ormai con lui ci stavamo raccontando le rispettive vite, quindi sempre per prudenza Marco raccolse un sasso con l’intenzione di usarlo in caso le cose si fossero messe male. Giunto in vicinanza poté udire i discorsi, che ormai erano quasi di amicizia. In fin dei conti rappresentavamo una bella novità nel panorama notturno di quel paesino!

Non sapevo come dire al contadino che eravamo in tre, mi seccava parlare di bisogni fisiologici.

– Marco! Ci sei? – urlai a un certo punto per fargli capire che doveva tornare e per avvisare a mio modo che eravamo una coppia + uno. – Arrivo! – rispose lui buttando via il sasso.

Pochi minuti dopo il contadino ci invitava a passare la notte a casa sua, ma noi gentilmente declinammo.

Né con pietre sapean fabbricar case, / né con travi coprirle, ma sotterra / come vili formiche entro latebre / d’oscuri spechi traevan la vita… così Eschilo narra del tempo in cui gli uomini vivevano nelle grotte. A Pantàlica vi sono centinaia e centinaia di vani a cubo scavati nella viva roccia calcarea.

La visione generale delle abitazioni trogloditiche e bizantine che si ha allorché si giunge alla fine della strada carrozzabile proveniente da Sortino è assai suggestiva: davanti a noi si apre una valle stretta e incassata tra pareti verticali a stratificazioni orizzontali. In fondo si ode vagamente scorrere un ruscello, i vani quadrati si vedono sporgere da muraglie di roccia inaccessibili. Forse questi sono collegati all’interno da gallerie comunicanti, forse gli antichi si erano calati dall’alto con delle funi, comunque appare impossibile questo tipo di lavoro, simile a quello della falesia dei Dogon nel Mali. I vani sono disposti in maniera apparentemente casuale, ma non è escluso che richiamino le costellazioni. Continuiamo a non sapere, ma l’impressione è enorme, quando il primo sole arrossa le bianche pareti e i buchi neri risaltano ancor più, geometrici ma inaccessibili alla mente razionale come lo sguardo di un gatto o la sublime espressione della Sfinge.

Quella notte pioveva, così Marco e Daniele Rao, un amico che si era aggiunto per qualche giorno, dormirono in uno di quei cubicoli. Il giorno dopo 26 ottobre c’inoltrammo nel canyon alla ricerca di pareti da scalare, lungo pance strapiombanti e grotte naturali per poi affiorare in vetta all’altopiano e camminare accanto all’Anactoron di Pantàlica.

Aprimmo Tomba a due piazze in tre, poi ci dividemmo: Daniele e Marco su Minima moralia e io da solo su Finis Africae: tre itinerari brevi ma belli e su roccia ottima.

Cava Grande è una frattura, un solco di parecchi chilometri, che fende i monti Iblei, le montagne «orizzontali» della parte sud-orientale della Sicilia. Dico orizzontali perché gli Iblei sono stati sollevati del tutto verticalmente e le loro stratificazioni sono perfettamente orizzontali, senza traccia di scivolamenti laterali o di accavallamenti. Perciò, pur essendo la roccia assai simile a quella dell’Appennino e delle altre montagne calcaree siciliane, queste montagne sono assai diverse. Essenzialmente un grande altopiano, con piccole alture e alcune grandi fratture come appunto la Cava Grande del fiume Cassìbile o il canyon del fiume Ánapo e di Pantàlica. Affacciarsi dal Belvedere sulla Cava Grande è spettacolo insolito: una stretta valle a V si apre ai nostri piedi nuda, verde di pascoli e di qualche vecchio platano orientale vicino alle vasche de fiume, bianca di rocce che sembrano le pagine di un libro. L’aspetto generale pare ingannare sulle dimensioni, e il senso di vuoto che emana da questo canyon senza grandi pareti verticali è forse superiore a quello di forre più selvagge. Sul fondo sembra vivere una realtà separata. Divisa da noi da duecento metri di dislivello, che sembrano molti di più. E si percepisce che laggiù è rimasto un lembo di paradiso terrestre, nelle anse del fiume, nelle piccole cascatelle, nel bosco impenetrabile e nell’incontro con animali che pascolano e sembrano essersi perduti qui da tempo immemorabile, mentre l’uomo ancora li ricerca sull’altopiano. Negli angoli segreti, nelle grotte scavate dall’uomo, nell’acqua pura migra il nostro rassegnato desiderio.

Il 27 ottobre, dopo aver seguito con Nella l’intero corso del Cassìbile nella Cava Grande, con Marco salii Delirium formichens, quattro lunghezze come al solito troppo impegnative per poter interessare qualcun altro dopo di noi.

L’obiettivo del giorno dopo era l’Etna perciò andammo a Catania a casa di Daniele Rao.

Etna Il nostro pellegrinaggio in Sicilia, alla ricerca di luoghi selvaggi dove poter esprimere il nostro corpo e dove poter vivere, non poteva che terminare con l’ascensione dell’Etna, la più alta montagna d’Italia al di fuori della cerchia alpina. Visibile già da centinaia di chilometri, fumante, la mole dell’Etna ha sempre impressionato gli antichi e anche oggi non cessa di stupire chi per la prima volta la veda.

È la prima vetta di oltre 3000 m di cui l’ascensione risulti documentata in modo sicuro… Strabone, che morì nel 21 d.C., parla dell’ascensione dell’Etna come di un fatto comune e frequente. Si racconta che verso il 126 d.C. l’imperatore Adriano si recò in Sicilia e compì l’ascensione dell’Etna. Strabone descrive dettagliatamente il cratere in cui sarebbe caduto il filosofo Empedocle che nacque più di 500 anni prima di Cristo, e che cercava di scoprire ciò che si agitava nelle voragini del vulcano.

Oggi la salita alla cima del vulcano è facile e neppure troppo faticosa se si approfitta dei mezzi meccanici che l’industria turistica mette a disposizione.

Il 28 ottobre noi siamo partiti a piedi dal rifugio Sapienza, in una splendida mattinata, dopo che una leggera nevicata aveva ricoperto la grigia montagna dai 2500 m in su. Tirava un vento fortissimo e marciavamo intabarrati in maglioni e giacche a vento. Sull’orlo del cratere principale non c’era nessuno, solo noi quel giorno po­temmo godere di uno dei più inquietanti spettacoli che la natura in Italia possa ancora offrire. Si aveva la sensazione di essere e camminare in zona proibita… guardando intorno ci si trovava minuscoli sull’orlo dell’immenso buco, fumante da punti innumere­voli.

Seduti sulla sabbia calda a ridosso dal vento, avevamo ugualmente freddo. In queste condizioni ci si sente estranei a ciò che sta avvenendo in profondità ma si sente una forte attrazione per ciò che la fantasia è in grado di immaginare, il travaglio rovente, fumoso e caotico della creazione. Ci seppellimmo per gioco nella sabbia calda e fummo tutt’uno. Poi cominciammo a scendere sul ghiaione più lungo e più morbido. Durante la discesa salimmo la prima lunghezza (di tre) della via Brida & C. sulla Parete dell’Acqua Rocca degli Zappini.

Sila, Laterza, Salento e Gargano Festeggiammo il compleanno di Marco in traghetto tra Messina e Villa San Giovanni. Poi cominciammo a risalire lo stivale.

La materia che più mi piaceva quando andavo a scuola era la geografia. Oggi non ricordo più tutte quelle capitali a memoria dei paesi africani emergenti, ma quando certi nomi si ripresentano, mi si affacciano alla memoria le immagini di scialbe foto a colori di sussidiari accuratamente sottolineati a matita. Era il tempo delle «ricer­che». Avevo dei quadernetti tutti miei, li facevo vedere solo al maestro, ed erano divisi per argomenti storici o geografici o scientifici. La Sila era un nome lontano, associato a una semplice fotografia in bianco e nero in cui si vedevano dei tronchi diritti di pino (così diversi dai pini di Liguria che ero abituato a vedere: ma quelli erano «marittimi»). In terra c’era la neve ed era tutto molto triste. Però allora quell’immagine semplice mi affascinò, tanto da volerne sa­pere di più. La nonna mi raccontò che in Sila c’erano ancora i lupi e questo partico­lare non fece che accrescere la mia curiosità. I romani si erano serviti di quei tronchi così diritti per costruire le loro navi e io continuavo a chiedermi perché, su una terra alla stessa latitudine dell’Africa o quasi, nevicasse così tanto da permettere la vita ai branchi di lupi che peraltro associavo senza riserve alle fredde terre dell’Alaska se­condo i racconti di Jack London. E a Genova invece era nevicato solo una volta. E questo mi dava fastidio perché mi veniva da invidiare i bambini calabresi che pote­vano giocare a palle di neve molto più di me.

In programma c’era di passare per la Sila tra ottobre e novembre: avrebbe fatto più freddo, ma i colori sarebbero stati assai più belli, forse avremmo addirittura incontrato la neve. Poco dopo Sersale, alle prime castagnete, ci fermammo nella nebbia a raccogliere castagne che altrimenti sarebbero marcite per terra. In un’ora di raccolta ne facem­mo quanto bastò per quattro o cinque giorni, mangiandone a ogni pranzo fino a stu­farsi. Nella nebbia osservammo che c’erano dei grandi lavori in corso: stavano ri­costruendo la strada per Buturo, non seguendo il vecchio tracciato ma più sempli­cemente tracciandone uno nuovo accanto, con sbancamenti incredibili. Dopo que­sto sfacelo ci addentrammo nel bosco silano tra i primi esemplari di pino laricio, mischiati a cerri e faggi. Questi ultimi avevano già assunto la loro colorazione ros­sastra autunnale ed emergevano da una nebbia che si diradava alla luce del sole calante. Dopo l’abitato di Tirivolo ci aspettavamo un bivio che portasse a destra verso il Bosco del Gariglione e solamente dieci km dopo il bivio ci accor­gemmo che la carta era sbagliata e un pastore ci confermò che Tirivolo era dopo il bivio verso il Bosco del Gariglione. Nell’oscurità calante navigammo su questo al­topiano così vario, tra radure e boscaglia fitta. Arrivammo così al buio alla caserma forestale di quel Bosco per chiedere rispettosamente il permesso di poterci siste­mare nell’ampio piazzale davanti alla caserma. Un cane lupo ci abbaiò contro, qualcuno uscì dai caldi locali della caserma per capire cosa diavolo succedesse. La guardia Funaro ci fece qualche domanda ma alla fine acconsentì a darci ospitalità per la notte.

Per l’occasione montammo per la prima volta la tendina, non era il caso che Marco dormisse fuori. Per tutta la notte sentimmo i latrati del cane lupo che contrastava un più lontano ululare forse di lupi.

Il mattino dopo 30 ottobre ci svegliammo con uno strato di un centimetro di ghiaccio all’in­terno del pullmino: fuori era un paesaggio irreale, ancora ricoperto di brina quando già il sole lo illuminava. Ci dissero che l’inverno precedente, alla fine di maggio, l’unico mezzo per raggiungere la caserma era l’elicottero. Salimmo  da sud al Monte Gariglione 1765 m, lungo uno stradino forestale costeggiato da magnifici abeti bianchi, i pochi rimasti dopo il selvaggio massacro di anni e secoli fa. In cima a quella boscosa sommità avevano costruito un’antenna che ci permise di innalzarci al di sopra del livello dei boschi e di vedere così dall’alto quanto la Sila sia sterminata: un altopiano solcato da valli non profonde ma tutt’altro che piane, a perdita d’occhio e solo una radura che si attutiva nelle prime calure umide del mattino. Anche i due mari si confondevano con un cielo poco limpido, non c’era il vento dell’inverno.

Da Lorica sul Lago Arvo evitammo di salire al Monte Botte Donato, il punto più alto della Sila, perché servito da un’ottima e turistica carrozzabile: ci interessava di più cercare un’altra montagna da proporre, più solitaria e più silana. E scegliemmo il Monte Volpintesta 1730 m, da ovest. Lorica offre uno spettacolo di squallide villette in stile pseudo-nordico che d’autunno fanno assumere all’intera zona un’aria cadaverica che si fa fatica a dimenticare anche dopo qualche chilometro di splendida Sila Grande, sulle Montagne della Porcina. Scendemmo così alla strada che unisce Cosenza a S. Giovanni in Fiore. Anche quella stavano rifacendo, con criteri ancora più demenziali perché addirittura costruivano una superstrada sopraelevata, talmente avveniristica da essere catastrofica.

Ma ancora volevamo vedere la più bella curiosità della Sila Grande: il Bosco Fallistro, vicino a Camigliatello Silano. Questo angolo di Sila è forse l’unico in 170.000 ettari in cui la mano dell’uomo per caso non abbia infierito e nel quale si respira ancora, anche vicino a un tronco abbattuto o a un altro talmente cavo da poterci entrare dentro, il fascino della Sila dei Bruzi e dei Lucani.

Il 31 lo dedicammo al tentativo di scendere la Gola inferiore del Raganello, ciò che non mi era riuscito con il Gigante. Conoscevo il percorso per arrivarci, ma ugualmente un pastore vestito di stracci in mezzo ai maiali volle mostrarcela, forse per farci vedere che aveva al polso un bellissimo orologio.

Purtroppo constatammo che c’era molta acqua, non eravamo attrezzati con i contenitori impermeabili e non avrei potuto nuotare con la macchina fotografica. Rinunciammo. Io imprecavo.

In Val d’Agri andammo alla ricerca dei torrioni di Castronuovo, quelli che poi sarebbero diventati il simbolo del Parco Nazionale dell’Appennino Lucano. Il conglomerato di cui sono costituiti spaventò anche me che ho imparato ad arrampicare sui conglomerati liguri. Era terrificante, perciò rinunciammo: e io imprecavo sempre di più.

Tra le tante bellezze geografiche e fra i tanti interessi artistici e folcloristici che l’al­topiano delle Murge può vantare c’è un fenomeno, tipico di queste zone, che carat­terizza in maniera inequivocabile la sua unicità: le gravine. Le Murge costituiscono un altopiano di potenza variabile nel cui calcare l’erosione ha scavato più o meno profondi canyon tramite i quali molte delle cose caratteristiche delle Puglie hanno potuto scampare alla generale distruzione. Tra le pareti delle gravine gli antichi scavarono le loro abitazioni, e come l’uomo vi trovò rifugio anche particolari specie di animali e di piante trovano ancora adesso la possibilità di sopravvivenza solo negli angoli più fuori mano delle gravine.

La Gravina di Laterza è indubbiamente la più significativa di tutte, perché la più ampia e la più profonda. In media è infatti larga 500 m, profonda 200 m ed è lunga sui 10 km. Il contrasto tra la pianura a volte perfino monotona dell’altopiano e l’improvviso aprirsi di un vuoto, sia pure non oscuro bensì illuminato da un sole caldo, celebra il fascino della gravina, che si sente per di più assai legata alla storia umana di quei luoghi.

Mentre le gole del Verdon in Provenza vivono di una loro bellezza selvaggia e del tutto avulsa dall’umanità che le circonda e che le ha sempre evitate, le gravine sono imbevute di storia umana. Forse perché l’acqua vi scorre, forse perché costituivano rifugio e difesa. Quindi vuoto improvviso, taglio netto dei bordi, ombre d’umanità e di sofferenza. Parte di questi dolori oggi li assorbe il torrente perenne. La Gravina di Laterza è percorsa da un’acqua nerastra e puzzolente che non ho osato né esaminare da vicino né tanto meno assaggiare. Laterza è ormai una grossa cittadina esuberante e tutte le fogne finiscono in quello che è un misero corso d’acqua, assolutamente incapace di sopportare un tale carico di liquame; impossi­bile quindi smaltire gli scarichi con così poca acqua. E ciò nella speranza che si tratti solo di rifiuti più o meno degradabili.

Ai lati della gravina vi sono delle bellissime coltivazioni di ulivi. Dove l’uomo non è intervenuto vi sono delle macchie originarie di fragno, una quercia assai tipica delle Puglie, che stranamente perde le foglie in primavera dopo averle tenute per tutto l’inverno. La ghianda è molto grossa e panciuta. Sulle pareti rocciose della gravina nidificano molti uccelli, specialmente rapaci. Addirittura abbiamo visto un capovaccaio. La vastità della Gravina di Laterza, unita alla difficoltà di accesso at­tuale e alla quasi impossibilità della sua traversata ci hanno impedito un’esplora­zione accurata, che originariamente doveva durare tre giorni. Così ci allontanammo dai colossali alberi di ulivi, dal vuoto storico e dalle acque puzzolenti. Lasciammo i soli nibbi a far pulizia nella gravina. E il 1° novembre ci accontentammo delle tre lunghezze del bel pilastro di Frattura d’Orizzonte.

Ci spostammo in Salento, il tratto di costa che si estende da Marina Porto a Lèuca: aspro, continuo, impor­tuoso, senza sabbia, di un bianco che abbacina. Un calcare candido, un’enorme scultura orizzontale e verticale, balcone sulle lontane e magari innevate montagne dell’Albania.

Talvolta il calcare bianco lascia luogo a strane formazioni rocciose di arenaria calcarea, più scure, a volte giallo-rossastre, che i pugliesi chiamano tufi: una roccia molto morbida che può essere addirittura segata come il legno e nella quale si pos­sono piantare chiodi lunghi quanto si vuole senza bisogno di fessure. Naturalmente non è bene toglierli, altrimenti i colpi laterali del martello provocherebbero una ferita assurda, più o meno quello che succede quando si vuole estrarre un chiodo da un tronco d’albero.

La costa salentina fino a pochi anni fa era rimasta intatta, ma ora la speculazione si cominciava a vedere. Le costruzioni erano abbastanza diradate, rispettose dell’architettura originaria e realizzate con l’uso di materiale prevalentemente loca­le. Erano dislocate spesso vicino a costruzioni assai più antiche a forma vagamente nuragica, a grossi blocchi di calcare ben squadrati. Purtroppo è solo questione di tempo e certamente anche quella splendida costa sarà utilizzata come tante altre in Italia. D’altra parte è stato facile fare la solita leva sullo sviluppo di quelle terre salentine, così ingrate. La bellezza di questi luoghi possiamo apprezzarla solo noi che non li abitiamo. Se si pensa che subito all’interno della costa l’altopiano è essenzialmente roccioso, che le pietre invadono i campi, faticosamente ricavati decimetro dopo de­cimetro, che v’è poca acqua, che spesso non si può lavorare la terra se non a mano, ecco che appare chiaro come la speculazione abbia avuto buon gioco e continui ad averlo se non si opporrà qualche forza superiore. Il nostro dovere era quello di far conoscere ai più questi posti così minacciati, alla ricerca delle nostre stesse ricchezze.

Il 3 novembre prendemmo di mira una torre appena staccata dalla scogliera, la Torre Miggiano, alta neppure 15 metri, sul lato sud della quale una certa via del Marinaio saliva alla vetta con appigli scavati. Dopo averla salita, salimmo dal basso Piccola e fragile dal basso, come pure Arbeiter e Under pressure. Poi ci dedicammo ad aprire altri due brevi percorsi con la corda dall’alto, Bandiera bianca e via Millelire.

La traversata delle scogliere era il forte di Marco, così sulla Scogliera di Ciolo si produsse su In gyrum imus et consumimur igni.

Mi rimaneva il Gargano, non potevo mancare una regione così ampia e così ricca di scorci superbi, di preziosità della natura, di mare azzurro. Non potevo trascurare la scogliera garganica, le sue grotte e soprat­tutto il verde entroterra o i suoi magnifici pini d’Aleppo. Anche se nell’agosto del 1971 mi avevano scassinato l’auto per rubare ben poco.

Il 4 novembre Marco voleva arrampicare sul bianco calcare della scogliera della Testa del Gargano. Era sua intenzione compiere una traversata completa, dalla Baia di S. Felice alla Baia di Campi. Il sole di mezzogiorno era caldo, l’acqua di novembre ancora tiepida. Era partito in costume da bagno e in dotazione aveva solo la magnesite. Infatti fa­ceva caldo e le mani sudavano facilmente sul calcare salato. A un passaggio estre­mamente difficile era volato in acqua, perché aveva rischiato senza paura di cadere. Risalito sulla roccia, continuò ripiegando su una variante un po’ al di sopra su roccia incredibilmente inconsistente. Dopo qualche decina di metri si trovò ancora in difficoltà. Il mare sotto non faceva paura, azzurro, profondo, calmo. Sembrava an­cora estate, ma non c’era nessuno, solo qualche barca di pescatori passava lontano. Un passo azzardato, Marco senza imprecazioni cadde in acqua, la sua terza passio­ne, dopo la roccia e le grotte. Quasi subito risalì sulla pietra, appena in tempo perché una bomba scoppiasse a pochi metri da lui, colonna d’acqua e di pesci morti all’istante, non raccolti dagli uomini in fuga che gli facevano segno col dito di stare zitto… Marco continuò con il cuore in gola la Traversata delle Bombe fino al luogo dell’appuntamento, il promontorio a nord della Baia di Campi.

Nel pomeriggio andammo sulla spiaggia di Vieste, dove si erge un bianco e piccolo faraglione di 26 metri, il Pizzomunno. Di un’eventuale salita precedente non avevamo notizia. Salimmo per il versante nord-est, e subito trovammo due chiodi. Dalla vetta ci calammo su un solido arbusto, più solido della roccia immediatamente sotto, quasi gessosa.

In serata andammo alla Foresta Umbra. Non appena varcato il Cancello del Falco, realizzammo di essere passati in un mondo totalmente estraneo alla maggior parte del resto d’Italia. Un primo pensiero fu un ringraziamento a tutti coloro che hanno difeso la realtà di questa meraviglia a dispetto di tutti i suoi nemici. I criteri di conduzione della Foresta Umbra sono infatti, secondo me, un modello di come tutte le zone protette dovrebbero essere ordinate: efficienza americana, amore quasi nordico per la natura e fantasia e buon gusto italiani.

Valga per tutti questo esempio: a protezione del tronco del più alto faggio della foresta (altezza 40 m, circonferenza del tronco 5 m) era stato sistemato un robusto steccato e accanto a questo era stato disposto un tronco morto con un cartello che invitava chiunque non sapesse resistere alla tentazione di incidere le proprie iniziali a esibirsi lì sul tronco morto. Infatti sul faggio non figuravano né scritte insulse, né date né cuori infranti: era stato ottenuto lo scopo principale senza offendere, senza proibire, anzi invitando a sorridere di uno dei nostri sport nazionali. Intorno vi era un posteggio, assieme ad altri accanto alle carrozzabili asfaltate, unici posti autorizzati alla sosta. I cestini per la spazzatura non straripavano di contenuto, il servizio nettezza era funzio­nante e non si vedevano intorno le solite cartacce, plastiche, vetri e barattoli. C’erano delle strade percorribili solo dai mezzi forestali, zone in cui bisognava avere l’autorizzazione di visita o magari l’accompagnatore. I cartelli di segnali erano sempre molto discreti, sotto ad alcune piante erano cartellini di legno con i nomi dell’albero in italiano e latino. Una descrizione siffatta lascerebbe immaginare non una foresta, ma un parco cittadino. Questo era il mio sospetto prima di entrare. Ma varcato l’ingresso, l’impressione fu immediata. Gli alberi coprivano la strada con una stupenda galleria vegetale e anche se non si aveva l’impressione di foresta buia e sel­vaggia, abitata da streghe, gnomi e coboldi, non si aveva neppure modo di pensare a un parco cittadino. La Foresta Umbra ha infatti una sua fisionomia, del tutto partico­lare, gravida d’impressioni alquanto diverse che in altri boschi più o meno grandi. La vastità è certamente un primo richiamo, la ricchezza di strato di suolo, l’impenetra­bilità al sole, il silenzio seguono a immergere il nostro animo in un mondo di pace e di grande respiro.

Con quella foresta chiudemmo il nostro viaggio e puntammo il muso del pullmino verso Milano. Il viaggio era finito e stavamo portando a casa anche l’ultimo compagno. Marco ci rimase nel cuore, per le sue battute, per il suo cinismo ligure. Quando al mattino faceva colazione con morsi di pane cosparso di peperoncino, o quando poi si buttava sulla marmellata e dicendo ripetutamente “belin, che buona!” se la faceva fuori tutta a cucchiaiate.

Marco continuò ad arrampicare e lo fa ancora adesso, come pure coltiva la sua altra grande passione, la speleologia. Con Daniela ebbe la figlia Sara, da lui adorata, che oggi fa il secondo anno di medicina. La nemesi, per uno che non voleva studiare e che a malapena aveva accettato di iscriversi a filosofia, mentre la madre Elsa, santa donna e insegnante all’Università di Genova di politica ecclesiastica, gli diceva: “se fai filosofia finisci per fare il casellante d’autostrada”. Infatti lui preferì i lavori in fune, attività che svolge anche oggi. Poche soddisfazioni economiche ma molto tempo libero.

A proposito di schioppettate e rapine a mano armata, ricordo un memorabile racconto di Alberto Paleari: Blood. Lí la realtà (della vicenda) e la fantasia (di Paleari) si mescolano sino a creare un piccolo capolavoro surreale, da cui lustri dopo fu tratto il film Un tranquillo weekend di paura. Di quelle pagine però non si sa quanto ci sia di vero e quanto sia licenza artistica, in puro stile paleariano.   Blood narra la storia di un’ingenua e pura guida alpina dell’Ossola e di tre baldi giovanotti della Pietra di Bismantova, tra i quali un entusiasta Carlo Possa, tutti all’esplorazione delle falesie della Puglia. Al grido di Boia chi molla costoro si lanciarono all’assalto ma furono assaltati, un po’ come quei pifferai che partirono per suonare e tornarono suonati. Due o tre tizi mascherati, con lupara d’ordinanza, si presentarono all’incasso sul far della sera in un luogo sperduto, mentre Possa declamava: “Ah, quant’è bella la wilderness pugliese!”.  Non rammento piú se, rimasti senza soldi, i nostri eroi dovettero ritornare a casa in mutande in treno con biglietto di terza classe oppure se si sciropparono a piedi il Sentiero Italia (che ancora non esisteva): Puglia-Reggio Emilia. Ragazzi, che tempi!  

Quanta storia, quanta passione, quanto amore.

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Avvertimi via email in caso di risposte al mio commento.

Avvertimi via email alla pubblicazione di un nuovo articolo.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Caro lettore, gli articoli di GognaBlog vengono pubblicati quotidianamente tra le 5 e le 6 di mattina. Ritenendolo un buon servizio, puoi ricevere una mail con il titolo del post appena uscito, nonché l’autore e un breve sunto. Perché questo sia possibile occorre che tu mandi un commento a un post qualunque e clicchi nell’apposita casella subito sotto allo spazio del commento. Grazie della collaborazione.

Abbonati al Canale Telegram del Gogna Blog, riceverai quotidianamente la notifica del nuovo articolo sul tuo smartphone o tablet (ma prima installa app gratuita sul tuo smartphone o tablet).

Oppure inserisci un link a un contenuto esistente